Uno parte da Milano. Passa dalla Brianza, fa un salto a Varese, si ferma un po' tra Como e Lecco. Nei suoi occhi rimangono cascine e bestie; il sole estivo ostinato e muto, gli steli duri dei prati su cui si è rotolato e che gli sono rimasti attaccati a tutti i vestiti; le passeggiate senza meta su e giù per colline, tra la polvere pallida e appiccicosa, sotto il carico incessante delle cicale; l'acqua, quella grande e tranquilla, laggiù nel lago, e quella più modesta e quasi vergognosa di fontane, cascatelle e torrenti.
Poi fa un giro larghissimo a spasso per l'Europa, per motivi che non val la pena indagare. A un certo punto, finisce in Moldavia. Un posto strano, di acqua raccolta al pozzo e wi-fi gratuita nei parchi pubblici. Naturalmente atterra nella capitale, Chisinau, ma poi lo si fa salire su un affollatissimo pulmino, per raggiungere un altro villaggio, distante qualche decina di chilometri. Era già insospettito, c'era lo stesso sole, bonario dittatore che dispensa afa e sudore candidamente convinto che chi li riceve non abbia bisogno di niente di meglio. Quando scende dal pulmino poi, uno rimane quasi a bocca aperta. Le stesse cicale, probabilmente quelle stesse cicale. La stessa erba, verde e gialla, ruvidamente ospitale. La polvere troppo affettuosa. Un fiume scorre umile e molle.
Sembra un po' come quando gli è capitato di visitare qualcuno all'estero per la prima volta, e per farlo sentire a casa gli hanno preparato la pasta. Buona, pensa, un po' scotta forse, ma non male, nonostante il ketchup al posto del sugo. Nonostante? Alla fin fine, trovar l'esotico nel famigliare è ciò che di meglio il pigro viaggiatore possa sperare. Ed eccola lì, una campagna intera come un piatto di spaghetti in salsa di pomodoro e aceto!
Dunque passeggia, sulle vie sterrate, tra le case basse, povere e coloratissime. Tre ragazzotti gli passano accanto a bordo di una vecchia utilitaria nera decappottata a cui han maneggiato motore e carrozzeria per fare un po' più di rumore un po' più in fretta: salutano soddisfattissimi. Il villaggio finisce in fretta, e tra i campi incontra cavalli appena appena legati che mentre passi loro accanto gli mettono addosso quello sguardo inquietamente rispettoso di chi riconosce uno di quelli a cui bisogna concedere di essere portati in groppa, ma non ora. Poi uno arriva al fiume: va piano, in silenzio, l'acqua non si prende più nemmeno la briga di star limpida, preferisce prendere a braccetto terra e alberi mentre asseconda svogliatamente la pendenza. La riva è costellata di minuscoli moli sbrindellati, quattro assi di legno che cigolano e oscillano a ogni passo, e alla fine una sedia, rivolta verso il fiume, a volte addirittura una poltrona. Uno pensa che se ne potrebbe fare un simbolo per qualcosa di profondo, ma non gli viene in mente niente di decente e passa oltre. Meglio lasciare questo genere di cose a Kusturica.
Colline e prati, fiume, prati e colline; di quell'infanzia lontana nel tempo e nello spazio tornano anche il calore tutt'attorno alle guance, l'umidità molesta sulla fronte e sul resto del corpo, gli occhi ormai sazi di luce. Uno raggiunge una piccola chiesa, bianchissima. Lo accoglie un sacerdote tutto vestito di nero, con una fortissima tentazione di stereotipo: la pelle color ruggine levigata da anni sotto cielo sereno, a sua volta rimasto negli occhi, il viso generosamente incorniciato da chiare barba e capigliatura copiose, cresciute da sempre in allegra anarchia. In una radura di questa foresta, un sorriso rimasto uguale dai tempi dei denti da latte, e che tradisce la stessa esigenza imbevuta di dolcezza di allora. Offre dell'acqua presa da una pompa a mano, oggetto altrove quasi mitologico. Parla in russo della sua terra, della mamma lontana, della vita solitaria: uno chiaramente non può che intuire il filo del discorso, eppure per un bel po' si sente in buona compagnia.
Potere del ketchup.
Ho potuto visitare la Moldavia grazie all'ospitalità di un'amica che ha compiuto là il Servizio Civile. Se la lettura ha stimolato la vostra curiosità, fate un salto qua:
Dunque passeggia, sulle vie sterrate, tra le case basse, povere e coloratissime. Tre ragazzotti gli passano accanto a bordo di una vecchia utilitaria nera decappottata a cui han maneggiato motore e carrozzeria per fare un po' più di rumore un po' più in fretta: salutano soddisfattissimi. Il villaggio finisce in fretta, e tra i campi incontra cavalli appena appena legati che mentre passi loro accanto gli mettono addosso quello sguardo inquietamente rispettoso di chi riconosce uno di quelli a cui bisogna concedere di essere portati in groppa, ma non ora. Poi uno arriva al fiume: va piano, in silenzio, l'acqua non si prende più nemmeno la briga di star limpida, preferisce prendere a braccetto terra e alberi mentre asseconda svogliatamente la pendenza. La riva è costellata di minuscoli moli sbrindellati, quattro assi di legno che cigolano e oscillano a ogni passo, e alla fine una sedia, rivolta verso il fiume, a volte addirittura una poltrona. Uno pensa che se ne potrebbe fare un simbolo per qualcosa di profondo, ma non gli viene in mente niente di decente e passa oltre. Meglio lasciare questo genere di cose a Kusturica.
Colline e prati, fiume, prati e colline; di quell'infanzia lontana nel tempo e nello spazio tornano anche il calore tutt'attorno alle guance, l'umidità molesta sulla fronte e sul resto del corpo, gli occhi ormai sazi di luce. Uno raggiunge una piccola chiesa, bianchissima. Lo accoglie un sacerdote tutto vestito di nero, con una fortissima tentazione di stereotipo: la pelle color ruggine levigata da anni sotto cielo sereno, a sua volta rimasto negli occhi, il viso generosamente incorniciato da chiare barba e capigliatura copiose, cresciute da sempre in allegra anarchia. In una radura di questa foresta, un sorriso rimasto uguale dai tempi dei denti da latte, e che tradisce la stessa esigenza imbevuta di dolcezza di allora. Offre dell'acqua presa da una pompa a mano, oggetto altrove quasi mitologico. Parla in russo della sua terra, della mamma lontana, della vita solitaria: uno chiaramente non può che intuire il filo del discorso, eppure per un bel po' si sente in buona compagnia.
Potere del ketchup.
Ho potuto visitare la Moldavia grazie all'ospitalità di un'amica che ha compiuto là il Servizio Civile. Se la lettura ha stimolato la vostra curiosità, fate un salto qua:
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