Fuori luogo?

Come ci sono finita qua? Ah, lo so bene. Quelle otto bocche. Quelle otto bocche urlanti. Quelle otto affamate bocche urlanti. Mi sembra di aver sbagliato tutto. Di essermi interessata alla parte sbagliata del mondo. Per di più tutta sicura non avessi bisogno di sapere altro. Invece ormai da un bel po' mi sembra di non sapere nulla di utile e quindi, in definitiva, di non sapere nulla. Nulla che metta insieme abbastanza da mangiare per tutti. Forse avrei dovuto pensarci prima, ma non sono certo cose che si programmano. Poi ad un certo punto rimani sola, con loro. Non ho rancore, solo nostalgia di quando cercavo la novità con entusiasmo, e un poco me ne bastava. Ora non è più la novità, qual essa sia, che cerco, ma qualcosa che ci impedisca di morire. Non trovandone mai a sufficienza per tutti mi trasferisco da un luogo all'altro con l'ansia di scadenze sempre più frequenti e sullo sfondo quel persistente male del doversi lasciare indietro tutti quei dettagli sconosciuti ciascuno dei quali un tempo avrebbe potuto tenermi felice a lungo. Anzi, ormai conviene trattarla con sdegno, la novità: per la sua avarizia, per la sua imprevedibile capacità di essere, in definitiva, irrilevante.
Devo riconoscere però che questo è il posto più strano in cui mi sia mai trovata. Pieno di quelle persone che non capisco, che non ho modo di capire; quelle poche volte in cui pure mi capita di cogliere l'intenzione di qualcuno di loro, non so come reagire, di sicuro non potrei dire alcunché, e poi, per fortuna, il più delle volte non si rivolgono a me. Non so proprio come facciano a sentirsi felici vivendo qui. Tutti ammassati in quegli scatoloni lisci, il resto dello spazio levigato e sporco. L'aria è intasata da odori forti, indecifrabili e nauseabondi. Meno male che perlomeno stasera c'è un po' di vento. Che abbiano freddo? Ecco perché ce ne sono così pochi in giro. Freddolosi, paurosi, mi chiedo come facciano a sopravvivere. Per esempio, se non avessero messo in giro tutte queste luci, forse si riuscirebbe anche a cacciare. Ma figurati, con tutti questi piatti spiazzi vuoti. Non ci dovevo venire qua.
Ecco, quello m'ha vista. Si ferma. Che vuole fare? Si avvicina. Tieni la distanza. Ancora. Cosa vuoi? Non osare! Che fai? Parli? Dovresti essere quello intelligente, e non sai che non posso capirti? O che non ho niente che ti possa dire? No, non fare altri passi. No, non posso restare. Non avrebbe senso. Volpi addomesticate? Forse in qualcuno dei tuoi libri. Io me ne vado.

Che freddo. Il vento è forte, continua a cambiare direzione, scompagina e confonde la difesa offerta dal mio cappotto, pur di qualità, e si insinua in ogni spiraglio e fenditura, facendomi rabbrividire e imprecare, nella speranza di distrarmi dal contare ogni passo e arrivare così, come di sorpresa, a casa. Ma quale casa. Quello è uno squallido appartamento in una terra straniera in cui ho avuto la malaugurata idea di trasferirmi. Non che avessi alternative, naturalmente. Quindi continuo a camminare.
Passo davanti al Thirsty Scholar, dove un undergrad dall'alito pesante mi saluta con entusiasmo alcolico. Poi c'è Popolino's, da cui esce un intenso odore di kebab, che a quest'ora della notte non esercita nessunissima attrattiva, a meno di non aver un impellente desiderio di cibo, qualsiasi cibo. Sento il cloro prima ancora di fiancheggiare la piscina, e ce l'ho ancora nelle narici dopo averla superata.
Senza pensarci volto lo sguardo e vedo due piccole e deboli luci giallo-verdi che ondeggiano a mezz'aria a una decina di metri di distanza. So di non aver bevuto così tanto. Mi fermo e molto cautamente mi avvicino a vedere di che si tratta. Ah, c'è qualcosa dietro a quelle luci. È una volpe? Mi guarda in faccia, il riflesso scompare. Bè, ciao. Anche te un po' fuori strada, nè? No, non scappare, guarda: mi fermo. Immagino che neanche tu ti stia dando al turismo. Tutto sommato devi essere più in difficoltà di me per spingerti fin qua. Ho capito, vuoi mantenere la distanza, mi sembra giusto. A te questo posto deve sembrare ancora più strano. Magari potremmo scambiarci qualche idea, raccontarci qualche aneddoto... se n'è andata. Una volpe a Manchester, questa è da raccontare! Riprendo la strada verso la tana, lo stesso freddo, ripenso all'incontro con uno stentato sorriso. Ci sono così tanti modi di non essere soli.

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La solidarietà dei viaggiatori

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Il volo che costa meno va a Liverpool? Nessun problema, è a pochi chilometri di distanza. E poi c'è il pullman che ti porta praticamente in centro. Comodo.

Il volo per Liverpool che costa meno è in piena notte? Nessun problema, posso dormire domenica mattina.

Il volo per Liverpool in piena notte atterra mezz'ora prima della partenza dell'ultimo pullman? Nessun problema: Ryanair non fa mai ritardo, e poi quanto mai può volerci a uscire da un aeroporto.

Clic. Clic. Clic. Clic.

C'è una cosa che ho sempre disprezzato: l'ottimismo arrogante. Un'altra cosa che ho sempre disprezzato, ed eccomi qui a farla. In questo momento sono devotissimo. In questo momento in cui temo per la mia vita. D'accordo, ho molto sonno. E l'autista sembra sapere il fatto suo. “Troppo forte?” “No, no, a posto”. È solo che questo sedile è così comodo. Vien proprio voglia di stringerlo. Forte. Forte. Ad ogni curva. Anche Pedro è silenzioso. Non pensavo fosse possibile. E sì che è uno di quelli che parlano sempre e sempre, tipo fino a farsi riprendere dalle hostess. Una vocazione. Ma lo vedo che anche lui apprezza possessivamente gli interni di quest'Alfa invertita. Non mi resta che guardare fuori. Lontane indifferenti fredde luci d'industrie sfilano lentamente nella notte. Indifferenti come l'ultimo pullman che parte lasciandoci ai piedi del Sottomarino Giallo a chiederci che faremo. Eppure Milano, Bergamo, Manchester, cospirano nel procurarci questo passaggio. Molto veloce. Lui lavora a Milano. Non è proprio di Manchester, ma ha un fratello che. E lo è venuto a prendere in aereoporto. Ed eccoci pure noi. Ci porta prima a casa sua. In campagna, coi coniglietti. Che a volte si ritrova sulla porta mezzi sbranati da qualche cane. Il tutto raccontato all'ennesima curva tagliata e inchiodata per il rarissimo mezzo in senso contrario. Poi finalmente il sollievo. “Mi hanno avvisato che qua sta girando la polizia”. Dio salvi gli sbirri.

Albeggia, quasi ci siamo. Casa mia. Bella domanda. Mai arrivato da questa parte. Mi pare si svolti lì. No là. Dovrebbe essere questa. Spè. Questa no. Questa? Sì! Sì? Sì, sì, grazie!

Buonanotte Pedro, domattina ti porto in stazione.  

Sonneau

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“OH MY GOD WE'RE FLYING!!!!”

L'entusiasmo della bimba al suo battesimo dell'aria non riesce a strapparmi dal senso di torpore che mi pervade da quando son passato sotto al metal detector, e con un sorriso cado in un sonno tutto sommato non così profondo, assediato com'è dalla luce, dal ronzio dei motori e dall'andirivieni di hostess e passeggeri. D'altro canto in qualche modo dormire è l'unica speranza per un volo sereno. Se no, o trovo qualcuno con cui parlare (difficile), o passo il tempo a occhieggiare i vicini e a contorcermi cercando una posizione rilassante che so bene non esistere; peggio ancora, potrei mettermi a pensare a tutti i pulsanti interruttori rubinetti manopole maniglie che potrei aver lasciato in una posizione leggermente e terribilmente diversa da quella sicura. Senza naturalmente farmi mancare l'immaginario audio e video delle possibili conseguenze di queste dimenticanze, in puro stile catastrofico-hollywoodiano.

Le prime volte, l'aereo era più entusiasmante, fin dall'inizio: il decollo che t'incolla al sedile, l'ascesa che ti schiaccia e in pochi minuti rende tutto quello che ti è più famigliare nuovo e irriconoscibile, con quella strana scala tra l'1:1 e lo stivale sulla cartina. Strade, città, fiumi, montagne, come posti appena scoperti, con ancora tutti i nomi da metterci sopra. Poi si scende, sempre più veloci, tra le case, i giardini e le automobili, sempre più giù, sempre più giù, senz'ombra di aeroporto fino all'ultimo, ecco lo scossone, la frenata, l'applauso (no, non lo faccio più).

Alla lunga però, persino il mare di nuvole diventa un'abitudine, e il desiderio più grande diventa che in qualche modo il volo duri poco, e si sia al più presto dall'altra parte. Ci sono ancora alcuni spettacoli che una giornata serena può concedere: le Alpi, venerandi vecchietti imbiancati che vedendo passare parecchi metri sopra di loro bambinoni pasciuti come me senz'apparente sforzo, sembrano brontolare “ai miei tempi...”; la campagna inglese, quella donna un po' noiosa e sicuramente non appariscente ma sul cui ruvido affetto senza fronzoli puoi sempre contare...

Nel vano tentativo di vendermi qualcosa, Ryanair mi sveglia. Ma sono sicuro che il volo ormai volge al termine.

“OMMIODDIO STIAMO VOLANDO!!!!”


I malvagi e la polarizzazione

Spesso mi ritrovo a scervellarmi su una questione, tanto vecchia quanto irrisolta: esistono i malvagi? Quelli in stile Disney? Quelli che sono cattivi punto e basta, vogliono solo distruggere il mondo e chi s'è visto s'è visto? Senza un briciolo di umanità?
E se esistono, sono mostri alla Mary Shelley, nati puri e poi inquinati dalla società scellerata, oppure sono malefici fino al midollo, nati col sangue acido, piccoli otri di fiele fin dal primo vagito?

L'esistenza dei malvagi è stata postulata da molti, ed è alla base di una diffusa visione del mondo, indubbiamente attraente in quanto semplice e funzionale. Si potrebbe riassumere così: "il mondo fa schifo perché i malvagi si danno un sacco da fare, e noi (i buoni) dobbiamo difenderci e far prevalere i nostri giusti principi, ispirati da [inserire qui una qualche divinità o un'alta autorità morale]". A parte per il parametro libero (l'autorità di riferimento), che ha un ruolo marginale, le diverse varianti di questa visione si differenziano perché identificano il nemico - la classe dei malvagi - ora con una categoria, ora con un'altra.
Per esempio, i leghisti identificano i malvagi con gli stranieri che vengono a rubarci il lavoro, o i terroni che non hanno voglia di lavorare; per altri, i nemici sono i giudici, oppure i baroni che intessono parentopoli come ragnatele, raggrinzendo l'università o la pubblica amministrazione con la loro sete di denaro; i malvagi possono essere anche i politici, i capitalisti, i berlusconiani, quelli che fanno antipolitica, quelli che non votano il PD, o anche i rossi di capelli.
L'assunto fondamentale che rende queste visioni così attraenti è che l'eliminazione dei malvagi di per sé sarebbe sufficiente a ristabilire l'ordine e il benessere.

Ora, prima di aderire ad una di queste visioni così semplici, che mi libererebbe da ogni ansia e ogni dubbio, che mi farebbe risparmiare sulle sedute dall'analista e sugli antidepressivi, non posso che soffermarmi e chiedermi, appunto, se i malvagi possano esistere oppure no.
Del resto, di opere malvage ne vediamo tutti i giorni: diritti calpestati, dignità ignorate, canzoni pop degli anni ottanta, ogni giorno sentiamo e vediamo prove apparentemente inconfutabili dell'esistenza della malvagità.

Nonostante ciò, fatico ad abbandonarmi all'idea che esistano persone dall'umanità talmente atrofizzata da escogitare e perpetrare in piena autonomia e lucidità abomini come quelli che mi rattristano ogni volta che masochisticamente affido il mio umore alle pagine di un giornale.

Può essere che le persone, in fondo, non siano così stronze. Magari sono un pochino stronze, ma in ultima analisi sono semplicemente mosse ognuna dai propri sentimenti e dai propri interessi personali, che per lo più si limitano alla soddisfazione dei bisogni primari e alla ricerca di un minimo di benessere e di qualche piccola fonte di realizzazione personale.
In una visione estremamente semplificata, potremmo schematizzare così le volontà di un gruppo qualunque di persone, immerse nel candido spazio socioeconomico:
Ogni freccina rappresenta la volontà di una persona. In generale ciscuna è rivolta verso un obiettivo diverso, indipendente da quelli degli altri, sia esso la soddisfazione di un desiderio, di una curiosità, l'allontanamento di una paura, o quant'altro.
La società contemporanea richiede che gruppi di persone che non si conoscono si mettano insieme per fare un lavoro comune, sia esso utile, per esempio produrre profilattici, oppure totalmente insensato, come produrre pubblicità di diverse marche di profilattici identici per proprietà e funzionalità. Si ha allora una società, una cooperativa, un'azienda, eccetera, in generale un'organizzazione, che possiamo rappresentare in questo modo:
In linea di principio si potrebbe pensare che, a parte il fatto di lavorare tutti sotto lo stesso tetto, per lo stesso capo, e produrre tutti profilattici o graffette o gelati o bombe a mano o servizi per le aziende, ogni volontà continuerà bene o male a cercare di farsi i cazzi suoi, non solo quando esce da lavoro e va a spendere i soldi guadagnati senza un criterio preciso.
Quello che ovviamente succederebbe in tal caso, però, come si evince facilmente dal disegno, è che l'organizzazione "Rettangolino Blu" non andrebbe da nessuna parte, perché ogni suo membro spingerebbe in una direzione casuale, e l'effetto totale sarebbe nullo.
Ci vogliono quindi degli strumenti per "polarizzare" le volontà dei membri dell'organizzazione, che permettano di ottenere la situazione rappresentata qui sotto:
Le frecce lunghe orizzontali rappresentano la forza esterna, che chiameremo in modo suggestivo "polarizzante", che agendo sulle volontà dei membri dell'organizzazione Rettangolino Blu ne modificherà la direzione preferenziale (si noti che le freccine continuano ad essere disposte in modo casuale, ma la maggioranza è almeno parzialmente rivolta nella direzione della forza polarizzante), risultando in una capacità netta del Rettangolino Blu di spostarsi in una direzione definita dello spazio socioeconomico. Più la forza polarizzante sarà efficace, maggiore sarà lo spostamento netto, che determina la produttività dell'organizzazione Rettangolino Blu.

Un esempio di forza polarizzante particolarmente efficace è, come si diceva più sopra, l'identificazione di un nemico. Così, per esempio, Scientology, i Testimoni di Geova o Lotta Comunista reclutano i loro adepti: il nemico sono i miscredenti; la loro eliminazione si realizza nella conversione alla propria dottrina.

Non è necessario (sebbene non si possa escludere) che ci siano dei singoli membri di un'organizzazione la cui volontà sia rivolta esattamente nella direzione della forza polarizzante: il risultato netto sarà comunque lo stesso, sebbene l'efficienza con cui viene raggiunto possa dipendere dall'efficacia della forza polarizzante sui singoli individui.

Per fare un esempio concreto, non è necessario che nella Nestlè ci siano singole persone che realmente desiderano distruggere intere foreste indonesiane per ricavarne l'olio di palma; analogamente, non è necessario che in Enel ci siano singole volontà volte alla distruzione della terra degli indios della Patagonia per la creazione di bacini idrici. Basta che una parte maggioritaria delle persone che hanno potere decisionale all'interno di queste organizzazioni non si opponga a ciò, e che la forza polarizzante (in questo caso detta anche "massimizzazione del profitto") volga in quella direzione, per cui questo avvenga.

Per concludere questo ragionamento, possiamo quindi dire che non è necessario che ci siano gruppi di persone malvage perché il mondo faccia schifo. È sufficiente che un certo numero di esse, non molto consapevole, si unisca per uno scopo comune (non necessariamente totalmente condiviso da tutte) per fare un sacco di danni, tanto più efficientemente quanto più siano mosse da un elemento polarizzante efficace - che si basi sulla paura, sull'avidità o su altri sentimenti semplici e diffusi.

Invece che l'eliminazione dei malvagi, in questa visione l'elemento cruciale potrebbe quindi essere la diffusione della consapevolezza, che ovviamente è molto più complicata.


Ecco perché molti di voi preferiranno aderire alle visioni di cui sopra: è la forza della semplificazione.
Non vi resta che mettere le sbarre alle finestre e addossare tutte le colpe al nemico - vivrete felici e contenti.

I speak italiano


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Achtung: il testo seguente potrebbe contenere tracce di invidia.

Una progenie di piccoli demoni si aggira per l'Europa. Non si distinguono per luoghi di aggregazione né per professione, che comunque molti di loro non hanno nemmeno ancora intrapreso; si mescolano con nonchalance alla gente comune che ignara condivide con loro momenti di vita ordinaria, senza nemmeno accorgersi della loro abissale distanza da una qualunque condizione di normalità che pure si ostinano a ostentare. Ma per accidente, gusto o misteriosa vocazione, questi diabolici poltergeist amano passare le loro esistenze in una sorta di perenne Tour d'Europe, pertanto è più facile incontrarne su mezzi di trasporto o stazioni di qualche genere, bus, treni, navi... io personalmente li trovo spesso in aeroporto. Hanno l'aspetto di teneri bimbi, magari in fila coi loro genitori a un check-in o in attesa d'imbarco. Quelli più innocui passano gran parte del loro tempo a succhiare dal biberon. Gli altri, più cresciuti, giocano o si lamentano con la loro mamma, poi si rivolgono al papà in un'altra lingua.

Beninteso, non parlo di quel goffo e grottesco accrocchio di quattro parole e regole che ci ficcavano in testa alle medie; nemmeno della capacità di capire ed esprimersi e comunicare in un'altra lingua (dopo anni di tentativi!), che però più che nascondere quella originale come uno dei travestimenti di Sherlock Holmes, la tradiscono come un costume da Pulcinella. Parlo di una seconda madrelingua (o padrelingua?), talmente indistinguibile dalla prima per naturalezza e correttezza che l'assegnazione di una qualsiasi gerarchia risulta puramente arbitraria; parlo di bilingui. Un'élite di scriccioli oggetto di un'immeritata grazia: ad esempio quella di avere padre inglese e madre italiana, o viceversa, o di qualche altra bizzarra scelta parentale che li porta a parlare due lingue tout court, senza nemmeno accorgersi di passare da una all'altra con la stessa semplicità con cui camminando si mette un piede dietro l'altro. Anzi, per alcuni (quelli ancora in passeggino) con una semplicità maggiore. Un background notevole, non c'è che dire. Mi fermo ad ascoltarli: sbagliassero un congiuntivo, pronunciassero male un gn o un gl, facessero un maccheronismo, un phrasal verb scorretto... niente! Sono alieni, vi dico! 

Nuova regia, vecchia scuola

Antipast di post ma post old school, come i primi apparsi sul blog. Cinestetismi e guerra per finta.

Le pratiche burocratiche le trovate qui.
Io adesso cazzeggio perché è da molto (troppo, troppo, troppissimo) che non sbatacchio sulla tastiera con gli occhietti umidi e traboccanti gratitudine verso il Nostro Affezionatissimo Austriaco da Combattimento (da ora in avanti NAAC).

김지운 è l'artefice di tutto ciò ed è il regista sudcoreano che ha diretto The Last Stand, uscito (?) a febbraio nelle sale italiane. Il fortunello ha avuto modo di scatenare NAAC, lasciandoli tutta la libertà necessaria per mettere a disagio l'intero set e la produzione.
Ne è valsa la pena. Ne è uscito un temino di tutto rispetto.

Vai con l'antipast!
Tema: L'autobus che mi porta a scuola.

Levataccia.

Ogni mattina Ottaviano, l'autista dello scuola-bus, ci viene a prendere alle 7:30. Ottaviano è amico mio e ogni giorno mi saluta sorridente. Martina ed io siamo i primi bambini che salgono per andare a scuola. Martina si siede sempre accanto a me, così ogni giorno posso farle vedere i miei disegni.
Mia mamma mi prepara la cartella (anche due o tre, se non mi alzo in fretta...) e il cestino con il pranzo. Lei dice sempre che fa fatica a tirarmi giù dal letto e che sarà anche peggio quando scoprirò la pubertà.

Ogni volta che il clacson si guasta, Ottaviano deve inventarsi una soluzione.

Posso rimanere seduto vicino a Martina per cinque fermate al massimo, perché quando sale Cosimo mi devo spostare in un altro posto. Cosimo non mi piace per niente. Dice sempre che Martina è roba sua, più o meno come qualsiasi altra cosa io riesca a immaginare. Non so mai cosa dirgli e neanche Martina. Se non riesco ad alzarmi in fretta, Cosimo sputa la cicca e me la incolla tra i capelli. Per questo motivo, la mamma mi ha rasato, così adesso potrò levarla alla svelta. Papà non è d'accordo con la mamma. Quando mi ha visto rasato ha lasciato a metà la sua lattina di birra ed è andato subito a comprarmi un regalo. È un regalo un po' strano, una specie di guanto che non avevo mai visto, tutto luccicante come l'oro, che copre solo la prima parte delle dita. Papà ha detto che serve a regolare i ragazzini e che quando sarò più grande dovrò tenerlo sempre con me.

Ottaviano dice che i ritardatari li dovrebbero bruciare tutti. Questo mi fa riflettere.

Quando arriviamo a scuola, scendiamo tutti dall'autobus e salutiamo Ottaviamo. Quando non mi legano insieme le stringhe delle scarpe posso restare un minuto a parlare con Ottaviano e lui mi racconta di quanti ratti riesce a colpire con la sua pistola o di tutte le sue amiche che lo vanno a trovare dopo la scuola. Voglio chiedere a mamma e papà di regalarmene una (amica o pistola, va bene uguale) o almeno di portarmi a casa di Ottaviano per vedere come fa lui.
Ho deciso: da grande voglio diventare proprio come Ottaviano. Come si può fare, signora maestra?

Giardinaggio dopo scuola. Dobbiamo dare il ramato ogni primo del mese.

Planimetria internazionale

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"Ma quindi quando torni?"
"A giugno"
"Allora stai qua tanto!"
"No, a giugno torno qua"
"Ah, pensavo tornassi là"

La mia oramai è una situazione banale per età e diffusione, eppure non manca di darmi da riflettere di tanto in tanto (già, ho una vita molto serena). Un giorno bello come tanti altri ho deciso di lasciare la casa dove sono cresciuto e circostanze e desideri m'hanno portato a valicare qualche confine, a parlare un'altra lingua, a guardare da un'altra parte quando attraverso. Mi son trovato ad avere una casa nuova e un lavoro nuovo; a incontrare gente nuova con cui si parla di cose nuove e si fanno cose nuove; in definitiva, a vivere in un modo nuovo, non soltanto diverso. Comunque, si continua chiaramente a sentire la corda che tira in vita. Quella è la corda che ho legato al comignolo di casa prima di andarmene, tra cordone ombelicale e dispositivo di sicurezza. Non si sa mai, non si può mica far finta di non aver lasciato indietro niente di valido. Guardar indietro è ancora piacevole, eccome. Anzi, che sollievo prendere un aereo, stendere un po' quella corda. Il relax ostinato, l'ozio metodico ancora per qualche giorno. Rivedere persone che ci sono ancora, checché appaia.

Fattosta che poi voli magari non più spesso, ma con una regolarità che si fa sempre più ritmo, biglietto pullman fila decollo volo atterraggio fila pullman e da capo. O viceversa, la sequenza è quasi palindroma dopotutto. E per l'appunto, ad ogni welcome onboard si nota come un'asimmetria che dissolve. Le differenze sono ancora tutte lì, e quel che c'è di fronte è tanto diverso da quel che c'è alle spalle quanto prima. Ma la tensione verso la destinazione è ormai quasi indistinguibile, sia che si torni a casa, sia che si torni... a casa. Quel tubo che vola sembra sempre meno un mezzo di trasporto, ma più un elemento architettonico, un ascensore lussuoso, un disimpegno aereo. Mi sento come se avessi il salotto in una nazione e lo studio in un'altra. Pagando un affitto molto più basso di quel che mi sarei aspettato. E incontrando coinquilini molto interessanti.

Viaggi di solo ritorno

Speranze e dintorni ai tempi dell'Irlandese Volante


Atterraggio, finalmente. Qua piove, ovvio. Fammi controllare un attimo se ho tutto. Trolley? C'è. Passaporto? C'è. Chiavi? Sì. 'sta carta d'imbarco la posso anche buttare ora. Portafoglio? C'è. Cellulare? Cellulare... qua no, qua no, qua... no! Ma diamine, è il terzo! Ah no, eccolo.

- Excuse me please, can I squeeze through?
- Sure, sorry.

Tanto ci rivediamo in fila tra un attimo. Nessuna storia al controllo documenti, bene. Tempo del viaggio in autobus, poi smonto la valigia e vado a dormire. Magari direttamente a dormire. E domani di nuovo al lavoro. Voglio tornare a casa.

In risonanza col bisogno di novità di Mamma Natura che finalmente dà via libera alla Primavera, DiversamenteSerio vi propone una miniSeria di piccoli episodi nella vita migrante di un pendolare dell'aria, che come tanti altri non può più crescere dove l'ha sempre fatto e cionondimeno non può e non vuole essere indifferente a ogni chilometro che passa sotto la fusoliera.

Ci vediamo Sabato 28 Aprile per la prima puntata e ogni quindici giorni per le seguenti!

Filter coffee, anyone?



(a)narcofascismi



Trasporti notturni di una metropoli. Affollati.


Giovani esuberanti si passano una canna, intonano cori da stadio, mi fumano praticamente in faccia.

Salgo in cattedra, che è la mia vocazione.

IO: imparate il rispetto...
GIOVANE NARCOTIZZATO: sei stato giovane? Ora tocca a noi.
IO: io non l'ho mai fatto.
GN: la prossima generazione sarà anche peggio.
IO: spegni quella sigaretta, ci vuole poco a capire che stai dando fastidio.
GN: ma quelli in fondo all'autobus sono contenti.
IO: quelli in fondo all'autobus hanno gli alveoli polmonari fuori dalla portata della tua sfacciataggine.

Alla fine, dopo una breve discussione, spengono la canna, aprono i finestrini e chiedono scusa.
(a tutte le piccole vittime dei bulli: anche voi, alla prima canizie, potrete assaporare la vostra dolce e facile rivincita. Tenete duro ancora un po').

L'esuberanza persiste, e si associa al rossore degli occhi prodotto dal cannabinoide. La loro allegria tutto sommato non mi dispiace e sorrido.
Due giovani tedesche strabuzzano gli occhi dall'alto della loro teutonica compostezza.


Poco dopo, una ragazza del gruppetto, senza un motivo apparente, inneggia a Mussolini.

Ritorno velocemente alla cattedra.
IO: perché ti piace Mussolini?
GIOVANE RAGAZZA NARCOTIZZATA: ha scritto "me ne frego". È un grande.
IO: tu sai chi era Mussolini? In che anni è vissuto?
GRN: prima era socialista, faceva il giornalista, dirigeva un giornale, poi quando è diventato dittatore lo ha fatto bruciare.

Si intromette un'altra giovane ragazza narcotizzata, salvandomi dall'impaccio di dover ribattere alla prima che, in quanto a nozioni sulla vita di Mussolini, si rivelava più pronta di quanto mi aspettassi (non che ci volesse tanto per essere più pronti di me).
GRN2: siamo in un paese libero? allora lei potrà pensare quello che le pare.
IO: lasciando da parte la disquisizione sull'attuale libertà di pensiero nel nostro paese, vi invito a pensare con la vostra testa, invece che aderire pedissequamente a qualcosa che avete sentito dire.
GRN: non l'ho sentito dire. Lo penso io.
IO: se ci fosse Mussolini non potresti certo farti le canne, far festa fino a tardi, sbucherellarti il labbro con l'acciaio chirurgico, rispondere alle persone canute che ti redarguiscono, eccetera.
GRN: se ci fosse Mussolini, seguirei le sue regole.
IO: vi sto solo invitando a ragionare.
GRN: che ansia. Io scendo.

Il gruppo di ragazzi scende alla fermata, con mio sommo dispiacere. Speravo di ottenere una loro facile capitolazione, come per la discussione precedente.



Mi siedo e ripenso alla situazione.
Mi rendo conto di due cose:
1) esistono gli anarcofascisti, curiose chimere che sostengono la disciplina e il culto del leader mentre si drogano e sfanculano ogni genere di autorità;
2) sono più fascista io di loro.

Sono lezioni difficili da digerire.

Moldavia di giorno

    Uno parte da Milano. Passa dalla Brianza, fa un salto a Varese, si ferma un po' tra Como e Lecco. Nei suoi occhi rimangono cascine e bestie; il sole estivo ostinato e muto, gli steli duri dei prati su cui si è rotolato e che gli sono rimasti attaccati a tutti i vestiti; le passeggiate senza meta su e giù per colline, tra la polvere pallida e appiccicosa, sotto il carico incessante delle cicale; l'acqua, quella grande e tranquilla, laggiù nel lago, e quella più modesta e quasi vergognosa di fontane, cascatelle e torrenti. 
    Poi fa un giro larghissimo a spasso per l'Europa, per motivi che non val la pena indagare. A un certo punto, finisce in Moldavia. Un posto strano, di acqua raccolta al pozzo e wi-fi gratuita nei parchi pubblici. Naturalmente atterra nella capitale, Chisinau, ma poi lo si fa salire su un affollatissimo pulmino, per raggiungere un altro villaggio, distante qualche decina di chilometri. Era già insospettito, c'era lo stesso sole, bonario dittatore che dispensa afa e sudore candidamente convinto che chi li riceve non abbia bisogno di niente di meglio. Quando scende dal pulmino poi, uno rimane quasi a bocca aperta. Le stesse cicale, probabilmente quelle stesse cicale. La stessa erba, verde e gialla, ruvidamente ospitale. La polvere troppo affettuosa. Un fiume scorre umile e molle.
   Sembra un po' come quando gli è capitato di visitare qualcuno all'estero per la prima volta, e per farlo sentire a casa gli hanno preparato la pasta. Buona, pensa, un po' scotta forse, ma non male, nonostante il ketchup al posto del sugo. Nonostante? Alla fin fine, trovar l'esotico nel famigliare è ciò che di meglio il pigro viaggiatore possa sperare. Ed eccola lì, una campagna intera come un piatto di spaghetti in salsa di pomodoro e aceto!
    Dunque passeggia, sulle vie sterrate, tra le case basse, povere e coloratissime. Tre ragazzotti gli passano accanto a bordo di una vecchia utilitaria nera decappottata a cui han maneggiato motore e carrozzeria per fare un po' più di rumore un po' più in fretta: salutano soddisfattissimi. Il villaggio finisce in fretta, e tra i campi incontra cavalli appena appena legati che mentre passi loro accanto gli mettono addosso quello sguardo inquietamente rispettoso di chi riconosce uno di quelli a cui bisogna concedere di essere portati in groppa, ma non ora. Poi uno arriva al fiume: va piano, in silenzio, l'acqua non si prende più nemmeno la briga di star limpida, preferisce prendere a braccetto terra e alberi mentre asseconda svogliatamente la pendenza. La riva è costellata di minuscoli moli sbrindellati, quattro assi di legno che cigolano e oscillano a ogni passo, e alla fine una sedia, rivolta verso il fiume, a volte addirittura una poltrona. Uno pensa che se ne potrebbe fare un simbolo per qualcosa di profondo, ma non gli viene in mente niente di decente e passa oltre. Meglio lasciare questo genere di cose a Kusturica.
    Colline e  prati, fiume, prati e colline; di quell'infanzia lontana nel tempo e nello spazio tornano anche il calore tutt'attorno alle guance, l'umidità molesta sulla fronte e sul resto del corpo, gli occhi ormai sazi di luce. Uno raggiunge una piccola chiesa, bianchissima. Lo accoglie un sacerdote tutto vestito di nero, con una fortissima tentazione di stereotipo: la pelle color ruggine levigata da anni sotto cielo sereno, a sua volta rimasto negli occhi, il viso generosamente incorniciato da chiare barba e capigliatura copiose, cresciute da sempre in allegra anarchia. In una radura di questa foresta, un sorriso rimasto uguale dai tempi dei denti da latte, e che tradisce la stessa esigenza imbevuta di dolcezza di allora. Offre dell'acqua presa da una pompa a mano, oggetto altrove quasi mitologico. Parla in russo della sua terra, della mamma lontana, della vita solitaria: uno chiaramente non può che intuire il filo del discorso, eppure per un bel po' si sente in buona compagnia.
    Potere del ketchup.



Ho potuto visitare la Moldavia grazie all'ospitalità di un'amica che ha compiuto là il Servizio Civile. Se la lettura ha stimolato la vostra curiosità, fate un salto qua:



Kar (ma) time!

Forse dovremmo aprire una sezione dedicata ai calcoli antipatici. Ci penseremo.

Per intanto ve ne propongo uno fresco fresco di tangenziale: le ore che si trascorrono in auto a brutalizzare il karma.

Questa mattina ho dovuto prendere l'automobile. Di solito me la cavo in moto ma oggi non è stato possibile e sono rimasto invischiato anch'io nel traffico infernale mattutino.
Niente di nuovo, direte voi, oh automobilisti indefessi che ogni giorno affrontate le angherie dei vostri pari tra le fronde della jungla urbana.
Ma forse, a volte, chi è troppo assuefatto al dolore non lo sa descrivere agli altri e non è in grado di lasciare un monito ai posteri.

Dopo quello che ho visto oggi, mi sento in dovere di provarci.

Anche questa volta mi abbandonerò al primo ordine del problema, abusando largamente di tutte le approssimazioni che mi servono per non andare in sbattimento.

Sempre per evitare sbatti (massimo divisore comune delle mie svariate attività), attingerò ai dati dell'ACI, reperibili in questa pagina.

Il comunicato sopracitato cerca di quantificare, in termini di denaro sprecato, il danno provocato dai rallentamenti del traffico cittadino in alcune delle più importanti città d'Italia. Troppo spesso il tempo è denaro ma qui tralascerò questa conversione tra risorse.
Mi basta e avanza sapere quanto tempo di vita mortale viene buttato in una scatola chiusa di metallo, che al 30% fa quello per cui è stata pensata e che al restante 70% scalda il resto del mondo.

Consideriamo i dati delle città di Roma, Milano, Torino e Genova.
La stima è stata fatta sulla base dei dati raccolti con i segnali dei navigatori satellitari installati sui veicoli. Non ho la più pallida idea di quale sia il grado di accuratezza con il quale sono state fatte le misure. Chissene. Decido che mi fido, altrimenti dovrei chiuderla qui e la cosa non mi va.

Le ore spese in auto in un anno sono mediamente:

500 a Roma e a Milano, 450 a Torino e 380 a Genova. In media sulle quattro metropoli ci scappano circa 450 ore all'anno trascorse in macchina.

450 ore ÷ 24 ore = 18,75 giorni all'anno dentro l'abitacolo.

Diciamo 20 anni, così, euristicamente accazzo? Sempre per il principio del "minimo sbatti", ovvio.
Ok, allora sono:

18,75 giorni/anno x 20 anni = 375 giorni = 1 anno + 10 giorni

Se mi metto in macchina il primo di gennaio e ne esco l'undici gennaio dell'anno successivo sono a posto per sempre.
Per curiosità, qualcuno sa per quali reati siano previsti 12 mesi di reclusione?

Emergenze

Dal dizionario Sabatini Coletti: "emergente [e-mer-gèn-te] - agg. Che esce da una condizione anonima o subalterna || paesi e., quelli del Terzo Mondo liberatisi dal colonialismo e in via di sviluppo economico; s.m. e f. Chi si afferma per la prima volta in un dato ambito".

E io che pensavo fosse il participio di emergere.
Mi immaginavo un sommergibile, un U-Boot della seconda guerra mondiale, che emerge. In una di quelle spettacolari riprese tanto care al cinema d'oltreoceano.
Eccolo lì, il sottomarino emergente.  600 tonnellate d'acqua che scivolano dal suo corpo metallico celebrandone la possenza.
Un sottomarino emergente è un sottomarino all'apice del suo essere. Che esce sì dall'anonimato dell'invisibilità, ma senza che questa fosse motivo di subalternità, anzi, era proprio essa a porlo al di sopra dei poveri scafi sempremersi che ha potuto silurare in tutta tranquillità.

Poi sono arrivati gli artisti "emergenti". Scrittori, musicisti, attori, filmmakers. L'epiteto "emergente", in loro compagnia, si trasfigura dal suddetto participio all'aggettivo di cui parla il dizionario. Un aggettivo che implica, appunto, la subalternità, anzi, l'anonimato che è il nemico ultimo e imprevedibile dell'artista moderno. Un artista che annaspa in un torbido mare di concorrenti, tutti pronti ad "emergere" a mutuo discapito.
E si configura così una nuova immagine, più statica, anzi, in equilibrio dinamico. In cui nel brulicare di artisti o sedicenti tali ogni tanto qualcuno sembra essere più emergente degli altri, lo si vede spuntare riempiendosi i polmoni appena al di sopra del pelo del magma, puntare i piedi sulla testa del vicino e tentare il salto.

Mentre, accanto a lui, un altro sta sprofondando.


C'è chi ne ha fatto un business - lanciare l'esca, aspettare che qualcuno abbocchi, prenderlo su un attimo, giusto il tempo di farsi pagare per il servizio, e ributtarlo a mare. (Che dico, non è un business - è uno sport!).
La lenza è più o meno sempre la stessa: il "concorso per artisti emergenti".
L'esca è la promessa dell'emersione, della pubblicazione dell'opera, della distribuzione, del successo.

Per qualche motivo, dai concorsi per artisti emergenti non è emerso praticamente nessuno, almeno che io sappia. Sarà un caso?

Think about it, son.

Mille e non più mille

Avvertenza: si tratta di un argomento di gravità inaudita.

Se amate la lettura e divorate libri con piacere e avidità, questo post potrebbe davvero rovinarvi la settimana. Se, al contrario, non vi spingete oltre le targhette dei citofoni e gli ingredienti dello shampoo restano per voi le letture più frequenti in bagno, allora state pure tranquilli: del problema che solleverò a breve non ve ne importerà una beneamata fava.

Decidete ora. Perché introdurrò la faccenda nel prossimo capoverso e non ci metterò molto ad arrivare al punto.

Dunque: un buon lettore, in buona approssimazione, non leggerà mai più di mille libri in vita sua.
Ve l'ho detto che ci avrei messo poco.

Un controllo rapido, dite? Per carità, comprensibile. Diciamo che tra studio, lavoro, sesso, code in posta, code in auto, codeina, pasti e coffee breaks, uno arriva a leggere, se va molto spedito e molto convinto, non più di cinque libri al mese. E mi sento di essere generoso.
Vale a dire, 5 x 12 = 60 libri all'anno. Che in buona approssimazione diventano 50. Cifra più tonda e ragionevole, siamo onesti. Con la crisi e l'invecchiamento della popolazione si lavorerà così tanto che ci sarà a mala pena spazio per il sesso, per altro probabilmente consumato negli ultimi lassi di tempo libero: in coda agli sportelli pubblici.

Ora, per quanto tempo ancora volete vivere? Se potete, rispondete in termini di anni, così diventa facile moltiplicare per 50 il numero che dichiarate e calcolare il numero di libri che potrete ancora leggere.
Io mi concedo altri ottanta anni e, di conseguenza, altri 4000 libri. Sono fermamente convinto che riuscirò a tenere il ritmo di 4 ~ 5 libri al mese anche dopo aver passato i cento, ma questo punto non lo voglio approfondire.

Tengo a precisare che quelli di voi che hanno già colto il nocciolo della questione e hanno smesso di leggere questo post per affogare il dolore con una maxi scatola di Ferrero Rocher godono di tutta la mia comprensione. L'ho fatto anch'io, prima di scrivere sul blog. Ora la tastiera del mio computer giace sotto uno strato appiccicoso di cioccolato, nocciole e lacrime.
Tutti gli altri spavaldi sono, molto probabilmente, solo disinformati.

Pare proprio che google abbia contato i libri esistenti, in vista di una digitalizzazione massiccia. Fatti loro, niente da dire, è solo che, contanto e ricontando, pare siano arrivati a circa centotrenta milioni di libri.

Qua c'è l'articoletto.

I dati sono questi. Ora io non voglio farla molto lunga ma provate a seguirmi un attimo in questo rapido conticino:

4.000 (parlo per me) ÷ 130.000.000 ≈ 0,00003077

che significa grossomodo lo 0,003 % dei libri conosciuti e leggibili secondo google, gente piuttosto in gamba di cui mi fido. Qua ci stanno cinque ordini di grandezza che ballano.

Concludo il mio lamento con una domanda:

Come comportarsi di fronte a questi numeri? Come scegliere la prossima lettura in totale serenità?

Non possiamo certo sprecare il nostro misero 0,003 % di pensiero umano accessibile.
E, dal momento che l'editoria tende a soddisfare l'intera domanda, e che i gusti delle persone sono molto diversi tra loro, è evidente quanto possa diventare difficile scegliere i mille libri migliori per sé. Non so voi, ma io ammetto di aver già sprecato un bel po' tentativi. Ne restano comunque ancora tantissimi, in senso assoluto, è chiaro. È solo quando mi metto a confrontare gli ordini di grandezza che cerco una scatola di cioccolatini a portata di mano.

Senza contare il fatto che, in un mare di 130 milioni di libri stampati per soddisfare più gente possibile, la probabilità di imbattersi in una vera e propria, emerita, stronzata diventi praticamente una certezza.